martedì 9 ottobre 2012

passato imperfetto, futuro presente




L'avevo promesso ed è arrivata l'ora di mantenere la promessa. Nel precedente post vi avevo  preannunciato che avrei smesso di trattare temi di attualità, politici ed economici, divenuti ormai "grigi" e imperniati solo su questioni di numeri (spread, tassi di disoccupazione, contrazione di consumi).
Non so per quanto tempo riuscirò a non parlare e scrivere di attualità, ma voglio parlare di altro; sicuramente anche nei prossimi post, in qualche modo questi temi faranno capolino e anche in questo, ma saranno lo sfondo di una scena in cui spiccano in primo piano altre questioni. Quei temi saranno solo l'innesco della riflessione su questioni più importanti.
Chi vuole può rileggersi il post precedente, la splendida frase pronunciata da Robert Kennedy nel 1968. Chi lo rileggerà, ricorderà così la mia intenzione di dare alla luce una serie di post che parlino di noi dell'uomo, di cosa veramente siamo e di cosa resta di noi, in ogni tempo, in ogni era, al di là delle fasi di crisi economica o di qualsiasi altro vincolo e condizione contingente a cui gli anni in cui viviamo vorrebbero legarci, entro i quali vorrebbero imprigionarci; la sfida di fronte a noi: riuscire a liberarci ad essere noi, comunque noi, in compagnia e in piena solitudine con la nostra interiore essenza di esseri umani.
Ecco il primo di questi post, più complesso di quelli in cui si scrive di politica, di attualità, perchè qui non si può restare in superficie, non c'è la possibilità di allinearsi, di restare in fila indiana, dietro a tanti che la pensano come te.
Qui si tratta di andare a fondo, di scavare in me, in noi. Rubo una frase al film di Sorrentino, "This must be the place": il rischio è di accorgersi di avere un'età in cui non si dice più "io questa cosa la farei così," ma trovarsi a dire "è andata così". Insomma il pericolo è di scoprirsi, nel senso di rivelarsi, non tanto agli altri, ma a noi stessi.
Non è la prima volta che scrivo dei post di natura più "intimistica", in cui ho raccontato vicende che mi hanno riguardato con annesse riflessioni; uno di questi è sicuramente "L'arcobaleno" (per chi volesse rileggerlo offro il link) e ascoltando l'emozioni suscitate in chi l'ha letto, ho sentito che quel post non riguardava me, ma noi e non c'è sensazione più bella nella vita che sentire di non essere "io" e scoprirsi "noi". Anche per questo motivo voglio scrivere questi post, sperando che abbiano lo stesso positivo riscontro.
Allora iniziamo: parliamo di movimento: mi piace osservare come si muovono le persone. Nelle donne mi piace vedere la postura del loro corpo, mentre camminano. Sospetto che in ciò ci sia anche un istinto di base, un aspetto inconscio di origine sessuale. Se però vi dico che mi piace osservare il movimento anche negli uomini, non dubitate delle mie inclinazioni sessuali, ma sappiate che dietro questa curiosità c'è altro, una riflessione, che va al di là del concetto cinetico del movimento e arriva all'aspetto metaforico e al significato che attribuisco al movimento. Mi capita spesso, di restare, come dire, affascinato mentre osservo certe persone camminare e mi scopro inconsciamente intento a guardarle, con la stessa inversa intensità con cui sposto altrove lo sguardo, quando ne incrocio altre, anch'esse in movimento. Ho cercato di capire quale fosse la differenza tra i due generi di persone. Le prime, quelle che mi ritrovo ad osservare, non si muovono condizionate da ciò che materialmente le circonda, ma vanno verso una direzione, un progetto, un'idea. Queste persone sono tutt'uno con il loro movimento, non si muovono perchè intorno a loro c'è un certo ambiente, ma perchè sanno in quale direzione andare e quel loro andare e la loro direzione, la metà, sono così combinati tra loro, al punto che queste persone non appaiono disgregate, come accade a chi si muove solo in funzione di ciò che lo circonda senza sapere perchè prende una certa direzione.
La differenza tra questi due generi di persone, è l'aver o meno scoperto il proprio compito, l'obiettivo della loro esistenza, che perseguono senza essere distratti da ciò che li circonda e che potrebbe portarle fuori direzione, complicandogli l'esistenza.
E' questo ciò che dovremmo fare sempre: andare, sapendo ciò che siamo chiamati a fare; è in tal modo che non avremmo più timore della morte, perchè anche quando la morte ci sbarrerà il cammino, sapremmo che nel frattempo stiamo costruendo, non distruggendo. Chi cammina in funzione delle cose che lo circondano, senza sapere il perchè di una direzione presa, non sta che aspettando la morte, che incontrerà inevitabilmente, lungo un cammino che non ha scelto, senza sapere il motivo per cui lo sta percorrendo. E' la differenza tra "stare" ed "esserci", tipica di quest'epoca, in cui si va verso qualcosa e non si è mai in quel luogo verso cui si va.
La paura del futuro non è che il timore del presente, perchè è in esso che non sappiamo costruire, sperando utopisticamente di riuscirci nel futuro, ma il domani è già oggi. Vivere un passato imperfetto significa non riuscire ad afferrare un futuro che è già presente.