martedì 4 gennaio 2011

Guerra e pace


Avevo voglia di parlar d'altro e di lasciare le questioni politiche in un angolo. In effetti, però, a ben vedere, il post alla fine tratta di economia e politica industriale. Certo tratta anche temi, cosiddetti sociali, cosa inevitabile, dato che la politica industriale e l'economia analizzano questioni che incidono sulla vita delle persone, oggi più che mai.
Questa mattina, ho assistito ad un dibattito in televisione sull'accordo in Fiat e connessa questione di relazioni sindacali. In un precedete post ne avevo già, in parte, trattato (vedi terza domanda del post).
Svelato il tema trattato, vi invito a non smettere di leggere, magari perchè poco interessati ad un aspetto, che, solo all'apparenza, vi riguarda poco o vi interessa ancor meno. Scoprirete, leggendo come la questione sia a voi più vicina di quel che crediate.
Breve sunto. Dopo l'accordo a Pomigliano, con tanto di referendum su cui non torniamo a parlare, in questi giorni è stato raggiunto un accordo per lo stabilimento di Mirafiori, siglato da Fiat e da Fim, Uilm, Ugl e Fismic. La Fiom non l'ha sottoscritto e il prossimo 10 gennaio, l’intesa sarà sottoposta al giudizio dei lavoratori attraverso un referendum. Sappiamo come è andato il referendume a Pomigliano e nel post che avevo scritto, già prevedevo come sarebbe andata prima che il referendum si svolgesse. Non occorre essere chiaroveggenti, perchè quando si tratta di lavoro, visto l'attuale tasso di disoccupazione in Italia, i lavoratori, specie quelli con qualche anno sulle spalle, non hanno molti dubbi se accettare anche condizioni di lavoro peggiori, pur di avere uno stipendio. Direi che c'è poco da gioire e non capisco perchè invece, in giro, ci siano molti che esultano di fronte a certi accordi (vedi Berlusconi) od appaiono rassegnati di fronte alla minaccia di trasferire all'estero la produzione (per essere bipartisan come oggi è considerato bello ritenersi, vedi Fassino).
Quanto al contenuto dell'accordo, vi rimando ad una ricerca in rete.
Quello che qui interessa è l'analisi fatta dai sostenitori dell'accordo, che diverge da quella dei non firmatari.
Berlusconi parla di "intesa innovativa e di un investimento importante per il Paese".
Marchionne già vede al giorno dopo e dice "Adesso faremo partire gli investimenti previsti nel minor tempo possibile. Ora, bisogna lavorare per realizzare il contratto collettivo specifico per la joint venture che consentirà il passaggio dei lavoratori alla nuova società Fiat-Chrysler"
Roberto Di Maulo, segretario generale della Fismic (firmataria): "l’accordo ha una portata storica perchè dimostra la capacità di mantenere un’industria manifatturiera in grado di attrarre investimenti esteri". "Viene modernizzato il sistema di relazioni industriale, creando il presupposto del contratto specifico dell’auto".
Maurizio Landini, Fiom (non firmataria): "accordo vergognoso. Per la prima volta, si cancella di fatto l’esistenza del contratto nazionale e si ledono i diritti dei lavoratori, impedendo ad un’organizzazione, tra l’altro la più rappresentativa del comparto e non solo della Fiat, di avere uomini e rappresentanze".
Assistendo alla discussione in TV, ho sentito Giuliano Cazzola (ex dirigente CGIL, poi nel 2008 eletto deputato nelle liste del PDL - un bel salto ideologico - oggi vicepresidente della Commissione Lavoro della Camera e consigliere politico del ministro Brunetta) parlare di Guerra "commerciale" e di diritto della Fiat alla difesa, giustificando così l'accordo. Come dire, quando si è in guerra, occorre difendersi con ogni mezzo e, si sa, le truppe contano meno (non voglio dire poco) rispetto all'obiettivo finale: la vittoria. Svelato quindi anche il perchè del titolo del post.
Insomma, da un lato scopriamo che l'accordo è stato posto quale contropartita per l'investimento; in altri termini, Fiat ha detto chiaramente: se passa l'accordo investo in Italia, se non passa investo in un Paese dove quello che è previsto nell'accordo me lo fanno fare.
Ragionamento che non fa una piega, visto che ormai da qualche anno assistiamo all'emigrazione, non dei lavoratori (come all'inizio secolo scorso), ma degli imprenditori, molti dei quali vanno ormai in quello che è un pese dell'Unione Europea, la Romania, viste le "migliori condizioni di lavoro" (viste nel senso dalla loro ottica, cioè costo del lavoro più basso, meno vincoli Burocratici e impedimenti sindacali).
La domanda da porsi è: come mai si è permesso a Paesi che non hanno stesso livello di vita e quindi diversa base salariale, ma soprattutto diversa sensibilità quanto a sicurezza e tutela dei lavoratori di entrare in un consesso, quale quello Europeo, che avrebbe dovuto uniformare gli standards di diversi Paesi, creando un'unione non solo di diritto, ma anche di fatto ?
Inutile poi guardare e prendersela con la Cina, se non si risponde a tali domande.
Insomma la logica imprenditoriale è quella che se devo produrre in un Paese, in cui ho più vincoli in tema di sicurezza del lavoro, burocrazia e il lavoro costa più, ovvero guadagno meno, perchè non andare in Paesi in cui non ci sono quei vincoli o sono minori, come minore è il costo del lavoro, ovvero meno vincoli, meno costo, più utile. Alla fine, stesso ragionamento (per essere una seconda volta bipartisan) che fanno i lavoratori chiamati al refendum: un cattivo accordo è sempre meglio di nessun accordo, che vuol dire niente lavoro, niente stipendio, niente mangiare, tanta fame.
Dall'altro lato dell'analisi firma sì, firma no all'accordo, scopriamo che chi non firma pone una diversa questione: Fiat con l'accordo, crea un contratto specifico, svincolato dal contratto nazionale, quindi ogni azienda potrebbe fare altrettanto e non richiamarsi a regole generali valide per tutto il Paese. In più chi non firma l'accordo non può essere a livello sindacale rappresentativo in quella realtà aziendale, ovvero i lavoratori saranno rappresentati solo da chi firma gli accordi.
Qui il dubbio espresso in due domande:
1) perchè Fiat vuole un contratto specifico, svincolato da quello nazionale, in cui è previsto che non sarà rappresentativo il sindacato che non firma; in altri termini un accordo, secondo cui chi non firma non potrà più contrattare e quindi non esisterà in quell'azienda, a prescindere che un certo numero di lavoratori si riconosca rappresentata dal sindacato escluso e vi aderisca;
2) perchè anche il sindacato che non è d'accordo su di una certa proposta di intesa avanzata dal datore di lavoro si prenderebbe la briga di non firmarla, con la conseguenza di essere tagliato fuori da successivi incontri e non poter più contrattare in quell'azienda ?
Insomma, appare evidente che se le ragioni della competitività di un'azienda, dello sviluppo economico, degli investimenti, della difesa di posti di lavoro sono condivisibili, non appaiono altrettanto i modi con cui le si vogliono sostenere.
Negli ultimi anni è latente una certa disaffezione per i sindacati, troppe volte visti come mezzi di tutela dei fannulloni, pretestuosi nelle richieste.
Di certo è colpa anche di alcune scelte di politica sindacale. Però, va sempre tenuto a mente che una qualsiasi cosa che si possiede, a volte, viene svalutata e appare superflua, per apparire necessaria e ottenibile solo a caro prezzo, una volta che non la si ha più. Questo vale anche per la libertà, che viene sprecata e snobbata, per poi essere rimpianta quando la si è persa e si cerca di riottenerla a qualsiasi costo. Mai dimenticare le conquiste ottenute dai lavoratori, basti pensare alle condizioni di lavoro in Italia, neppure un secolo fa, cioè molti anni dopo dell'unità d'Italia, di cui in quest'anno si festeggia il 150° anniversario.
Può apparire eccessivo ricordare il periodo fascista, ma in quegli anni il regime, con l’instaurazione dell’ordinamento corporativo, di fatto la fine del sindacato, realizzò una politica di ordine pubblico, in quanto l’ideologia corporativa negava l’inevitabilità del conflitto di interessi tra datori e prestatori di lavoro, eliminando tale conflitto per legge, in quanto era supremo un affermato interesse comune: l’interesse pubblico dell’economia. Per ogni categoria professionale era ammesso il riconoscimento giuridico di una sola associazione sindacale sia per i datori di lavoro sia per i lavoratori. Il sindacato dei datori di lavoro e quello contrapposto dei prestatori di lavoro costituivano, poi, la “corporazione”. I sindacati corporativi, avevano personalità giuridica di diritto pubblico, rappresentanza legale della categoria professionale. Lo Stato, per garantire il fine pubblico affidato ai sindacati si riservava il potere di revocare i dirigenti sindacali ed esercitava poteri di vigilanza. Caduto il regime fascista, vennero soppresse le corporazioni e i sindacati corporativi. Vennero costituiti i nuovi sindacati e si ebbe la ripresa della contrattazione collettiva. Intanto, vi consegno due link per chi volesse approfondire. Sono delle dispensine di storia trovate in rete che oltre al solito wilkipedia possono per chi ha voglia e tempo essere uno stimolo a leggere altro e verificare l'esattezza o meno di ciò ce vi è riportato.
Fare quest'analisi potrebbe essere utile per rispondere alla domanda che pongo e mi pongo: è così importante il diritto sindacale ? Fornito il link sulla definizione di diritto sindacale data da Wilkipedia, ne riporto solo la definizione: "Il diritto sindacale focalizza la sua attenzione sulla figura del lavoratore dal punto di vista collettivo: oggetto dello studio della disciplina pertanto sono tre argomenti principali: le organizzazioni sindacali, lo sciopero e il contratto collettivo di lavoro".
Pensate ora, a cosa sta avvenendo in questi anni e la politica condotta dal Governo riguardo le organizzazioni sindacali, la critica al contratto collettivo di lavoro operata nella questione Fiat e poi decidete voi se esiste qualche problema o tutto va bene.
Ogni volta che si pensa al passato e a tristi vicende si dice che oggi le condizioni sono diverse. Il problema e che l'idee di fondo di alcuni sono sempre le stesse ed è questo che mi preoccupa, perchè si può scivolare di giorno in giorno, impercettibilmente, ritrovandosi dove si non si pensava di poter arrivare.
Del resto (riporto link al Sole 24 ore), solo nel 2008 vi è stata un'intesa per regolamentare la rappresentanza sindacale, firmatarie le confederazioni sindacali. Ma oggi, per molto, non va bene neppure questo, se è vero che Fiat sostiene che gli investitori esteri sono scoraggiati ad investire in Italia, causa la pluralità di interlocutori dovuta alla frammentazione sindacale (ergo meglio un solo interlocutore, magari, vien da pensare, non conflittuale e dello stesso parere dell'altra parte, ... un analisi che appare ricalcare scelte del passato).
Lasciamo stare la questione sindacale e torniamo alla politica economica ed industriale. Chi sostiene l'accordo, afferma che esso sia utile, anzi necessario, per vincere la concorrenza economica mondiale nel settore auto (ecco perchè un contratto specifico). Ho già detto prima dell'Emigrazione di imprenditori verso certi Paesi, ma la questione da analizzare è: la concorrenza la si vince solo regolamentando il lavoro, riducendo il costo del lavoro ?
Insomma, la questione della competitività, è solo regolamentazione del lavoro e minor conflittualità ? certe scelte non sono anche figlie di questioni di finanza.
Chi sostiene le scelte di Fiat, pare suggerirci solo questo e lo scorporo e la divisione di Fiat dell'attività auto da quelle industriali è indicata come la soluzione decisiva, almeno per quanto affermato da Marchionne : "oggi è un punto di arrivo e di partenza ... di fronte alle grandi trasformazioni in atto nel mercato non potevamo più continuare a tenere insieme settori che non presentano alcuna caratteristica economica e industriale in comune". In pratica lo scorporo ha riguardato il settore auto, scorporato da quello Iveco, Cnh e Fpt (trattori, autocarri, ecc.).
Viene però il dubbio che siffatta operazione dopo 120 anni di storia Fiat (senza scorporo) sia utilie anche per fare scelte più rapide in termini di dismissioni e riassetti produttivi, oltre che interessante per questioni non industriali ma di finanza, considerato che lo stesso giorno dello scorporo il titolo Fiat industrial è salito del 3,05% e Fiat spa del 4,91% e che la somma delle quotazioni dei due titoli era superiore a quella della quotazione unitaria pre scorporo.
Si sa i capitali si muovono in fretta e se ne infischiano di lavoratori, produzione e mercato dei beni reali, se si pensa che chi ieri ha investito, incrementando le quotazioni non ha neppure considerato che secondo i dati delle immatricolazioni, in dicembre queste sono scese del 21,71% rispetto allo stesso mese dello scorso anno e la sola quota di mercato del gruppo Fiat è scesa del 2% in un anno (arrivando ad essere il 29,67%) .
Dove sono le questioni industriali, la progettazione, le nuove idee, i progetti ? Dov'è la ricerca su nuovi mezzi di trasporto e carburanti alternativi ? Ammetto di non essere esperto, ma in un momento in cui il prezzo di benzina e gasolio sale e va alle stelle, senza motivo apparente e connessione al prezzo del petrolio, perchè non si parla di tecnologie innovative ed alternative e non si evidenzia che i promessi investimenti servono a realizzarle.
In questi anni si è parlato di macchine elettriche, ad idrogeno, fornisco link, persino di oli utilizzabili al posto della benzina. Non è fantascienza (vedi un link su il messaggero.it ed uno sul tema delle politiche comunitarie in tema). Servirebbe una risposta per capire se chi lavora e dirige aziende nel settore auto vede il futuro con gli occhi del miope.
Se si accontenta di recuperare margini di utile e raccogliere capitali per fare quello che fa da sempre o se cerca soluzioni che rappresentino veramente una svolta, non solo per chi lavora in quelle aziende, ma anche per i consumatori. Pare difficile vincere la concorrenza mondiale e di certi Paesi emergenti, producendo le stesse auto di sempre, salvo non si voglia inondare quei mercati con le auto che non trovano più sfogo nei Paesi, che come il nostro non vivono più la travolgente espansione industriale e dei consumi. La concorrenza si vince, facendo quello che gli altri non sanno ancora fare, sviluppando e producendo beni nuovi, innovativi, che magari contribuiscano anche a ridurre l'impatto sull'ambiente, riduceno il consumo delle fonti energetiche scarse e manipolate nel prezzo dai pochi produttori, liberandoci così anche dalle catene dei vari sceicchi e compagnie petrolifere.

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